Nel 1833 lo scrittore francese Honoré de Balzac paragonò Parigi a un animale mostruoso in cui le varie parti sono connesse a partire dalle soffitte che corrispondono ai cervelli squattrinati, per poi passare ai primi piani, fatti di stomaci felici, e, ai piedi, le attività commerciali che muovono i loro passi in tutte le direzioni. Questa descrizione deve aver certo influito sugli scrittori italiani dell’Ottocento nel raccontare su carta le loro ben più modeste, ma in forte via di sviluppo, città. Tra queste anche Torino e in particolare le sue soffitte.
Se Angelo Brofferio a inizio Ottocento tra le pagine di I miei tempi si ergeva fiero “sulle tegole sottoposte colla sicurezza di un conquistatore che piglia possesso della soggiogata terra”, Vittorio Bersezio, in un suo omonimo libro pubblicato cinquant’anni dopo, enfatizza le marcate differenze tra i ceti sociali relegando ai piani più alti “la borghesia sempre minore di grado, a seconda che si saliva, e da ultimo sopra i tetti, nelle soffitte, la plebe”. L’amore per Torino traspare nel libro Le tre capitali di Edmondo De Amicis che, a fine Ottocento, descrive le camerette delle soffitte occupate dagli “studenti di provincia poveri ma di buona razza piemontese”.
Scavalcando il secolo la descrizione delle soffitte torinesi si incupisce: Giovanni Cena ne Gli Ammonitori le racconta come livide e con una miseria disperata e tangibile tra persone che muoiono di fame e alcolizzati che lasciano mogli e figli senza pane. Successivamente anche Mario Sobrero descriverà una Torino fortemente degradata nei caseggiati “proletari”.
Un viaggio sui tetti di Torino attraverso le pagine degli scrittori di Ottocento e Novecento questa settimana su Rivista Savej!