Statuto-albertino

La giustizia nel Regno di Sardegna

Incarcerazioni ingiuste, prigioni malsane, supplizi corporali e massiccio ricorso alla pena di morte: l’opinione comune tratteggia così la giustizia penale dei secoli precedenti il Novecento. Ma com’era la situazione a inizio Ottocento in Piemonte? Al ritorno dei Savoia, nel maggio 1814, il primo provvedimento fu quello di ristabilire le antiche leggi statali cancellate dalla dominazione francese: quella “restaurata” in Piemonte era quindi una giustizia di Antico Regime che non aveva come fondamento portante l’idea dell’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Titoli, posizione sociale, idee politiche facevano la differenza nel giudizio espresso da un tribunale. Le pene erano spesso molto dure e sproporzionate, basti pensare che la pena di morte era prevista per quasi tutti i crimini contemplati, anche il furto, e poteva essere combinata a vari supplizi, dallo squartamento alla decapitazione.


D’altro canto il Senato aveva un vasto margine di discrezionalità che consentiva di moderare l’eccessiva severità delle condanne, inoltre, il diritto sabaudo favoriva eventuali confessioni o rivelazioni degli imputati per alleggerire le loro posizioni. Con l’avvento al trono di Carlo Alberto, nel 1831, venne abolita la pena di morte per furto e successivamente l’intero sistema penale venne rivisto riducendo la discrezionalità del magistrato. Casi di abusi, assoluzioni clamorose e condanne pesantissime continuarono però ad essere denunciate dalla stampa. È solo con la promulgazione dello Statuto Albertino che vennero concessi ai piemontesi diritti individuali mai avuti prima, come l’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge. Ma davvero queste misure eliminarono ambiguità e zone d’ombra dal sistema giudiziario del Regno di Sardegna? Scopriamo l’evoluzione della giustizia ottocentesca in Piemonte questa settimana su Rivista Savej!