Una reporter di guerra, il coinvolgimento dei servizi segreti italiani, le possibili rappresaglie del governo russo e la questione curda: molti sono gli elementi da prendere in considerazione per analizzare il caso dell’omicidio di Lea Schiavi, una vicenda drammatica che potrebbe essere scambiata per la trama di un film d’azione. Lea Schiavi però è stata assassinata davvero e oggi in pochi sanno la sua storia nonostante il suo nome compaia come il primo femminile nel Freedom Forum Journalist Memorial di Arlington, in Virginia, monumento che commemora i corrispondenti di guerra deceduti nell’esercizio del proprio lavoro.
Nata a Borgosesia nel 1907 Lea fece la scelta coraggiosa e controcorrente di proporsi come corrispondente dall’estero per i giornali il Tempo e L’Ambrosiano. Alle soglie della Seconda guerra mondiale raggiunge Belgrado e poi Bucarest, solo un anno dopo arrivano le prime accuse di spionaggio e i suoi spostamenti iniziano ad essere controllati. Dichiaratamente antifascista, venne emesso anche un ordine di arresto nei suoi confronti, qualora fosse rientrata in Italia. Insieme al marito Winston Burdett, un giornalista americano, Lea raggiunge la Turchia nel 1941 e inizia a lavorare come fotografa per il quotidiano newyorkese PM.
La sua vita si interruppe in circostanze misteriose il 24 aprile 1942, quando venne uccisa in un’esecuzione premeditata nei pressi Tabriz, la più importante città dell’Iran del Nord che era, all’epoca, il quartier generale dell’Armata Rossa. Secondo il Dipartimento di Stato americano la donna fu assassinata da uno dei componenti di una banda composta da cinque curdi mentre stava viaggiando in automobile nelle vicinanze di Miandoab. Inizia così un lungo periodo di indagine sommarie, accuse reciproche e tanti, tanti dubbi su un caso entrato nella storia che oggi è giusto ricordare. Analizziamo il caso sull’assassinio di Lea Schiavi questa settimana su Rivista Savej.